prof. ing. Paolo MARINUCCI

Est modus in rebus: sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum”.

OrazioSatire

“Esiste una misura nelle cose; esistono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto”. I confini a cui ci richiama Quinto Orazio Flacco sono quelli che nel rapporto tra uomo e ambiente nell’era moderna abbiamo superato e che oggi vanno sotto il nome di “cambiamenti climatici”. Riscaldamento globale, eventi meteorici inaspettati e violenti sono solo alcuni degli aspetti che stiamo vivendo e che sono dirette conseguenze dell’aumento della temperatura globale dovuto all’opera antropica post rivoluzione industriale. Papa Francesco nella Laudato Sii esprime chiaro il concetto non più prescindibile secondo il quale non si può parlare di sviluppo sostenibile senza una solidarietà fra le generazioni. Sviluppo sostenibile che, nella sua accezione letterale come ci insegna Serge Latouche – non è altro che un ossimoro in quanto è veramente difficile abbinare lo sviluppo con il concetto di sostenibilità. Tanto che sempre Papa Francesco introduce il concetto di “ecologia integrale”. Non possiamo partire da un criterio utilitarista di efficienza e produttività per il profitto individualeNon è dignitoso e creativo insistere nel saccheggio della natura solo per offrire nuove possibilità di consumo e di rendita immediata. Il concetto è molto chiaro: è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti. Diceva Benedetto XVI che «è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso»”.

Papa Benedetto è stato un fine teologo, ma nell’ultima espressione pone anche la base di un’azione che dovrebbe segnare il nostro percorso di crescita e di sviluppo. Il movimento per la decrescita felice teorizza e promuove percorsi di crescita personale e collettiva di presa di coscienza e cambiamento, che portino a “decolonizzare” l’immaginario culturale attuale verso un immaginario in cui l’obiettivo è quello di stare bene insieme, essere consapevoli del benessere immateriale, dare un senso profondo al proprio tempo di vita, essere responsabili verso le generazioni future e l’ambiente in cui viviamo.

Il concetto ormai acquisito e condiviso da tutti è che il sistema MONDO non è infinito. Non si può chiedere più di quanto c’è, ma soprattutto non si possono consumare risorse in un tempo più veloce di quanto le stesse vengano prodotte. Sarebbe come chiedere un prestito alla terra e quindi ipotecare risorse che non sono del nostro tempo, ma dovrebbero essere a disposizione dei nostri figli o nipoti. L’Earth Overshoot Day di questo 2023 per l’Italia cadrà il 15 maggio. Quando sarà trascorso meno di metà anno avremo, a causa dell’utilizzo eccessivo delle risorse, superato la capacità produttiva e quindi andremo in debito. Ridurre il consumo di energia non significa non “produrre” o non vivere il progresso, ma cambiare quel paradigma che ci ha accompagnati nell’epoca del benessere tipica della civiltà dei consumi in cui l’atteggiamento è volto al soddisfacimento indiscriminato di bisogni non essenziali. Spegnere la luce in una stanza vuota è logica, non negare il progresso. Utilizzare i fumi di una caldaia a condensazione per sfruttare il calore latente è logico perché oltre ad aumentare l’efficienza riduciamo la temperatura dei fumi in uscita dalla canna fumaria. Per questo motivo risparmiare energia non vuol dire smettere di vivere il progresso, ma semplicemente utilizzare la tecnica per ottenere gli stessi risultati con utilizzo minore di risorse e contestualmente producendo meno rifiuti.

Il secondo passo che possiamo mettere in gioco è quello di scegliere quale vettore primario usare per produrre energia. Continuare con fonti fossili come gas, carbone, derivati del petrolio, oppure affidarci a vettori nuovi non tanto come presenza sul pianeta ma come tecnologia in grado di sfruttarli. In realtà, la tecnica era già conosciuta ed utilizzata dalla notte dei tempi. Il sole ci riscalda da prima che fossimo nati. Il vento ha mosso i mulini, le barche e i fiumi hanno trasportato merci. La differenza sostanziale è l’ottica con cui inquadriamo la situazione. Faccio un esempio per essere più chiaro. Nel 1600 un galeone poteva affidarsi solo alla capacità del proprio capitano e alla fortuna per non finire in “bonaccia”. Se non tornava il “vento” sarebbe rimasto li in attesa. Oggi una barca a vela, se rimane senza vento, ha un motore ausiliario alimentato con fonti fossili che gli permette di arrivare a destinazione. La prospettiva è completamente cambiata. Nel primo caso ci si affidava al “vettore energetico”, mentre nel secondo caso c’è la certezza di muoversi comunque. Quindi l’uomo e i suoi bisogni diventano l’elemento centrale e si modifica tutto ciò che sta intorno pur di ottenere quel che si vuole. La stessa cosa vale nelle nostre case. Oggi vogliamo l’energia elettrica nel momento e nella quantità desiderata a prescindere. Le fonti fossili possono darci questa certezza a fronte di richieste di risorse finite e non rinnovabili mentre le rinnovabili, se le trattassimo come vettore singolo, presentano una aleatorietà che non potrebbe soddisfare questo bisogno. Invece un mix produttivo (eolico, fotovoltaico, solare termico, maree, cogenerazione e altro), una rete energetica “smart” oltre che un progetto degli impianti che possa sfruttare il vettore e la tecnologia di produzione giusta in quel momento di utilizzo può tranquillamente rispondere alle nostre esigenze. Questo è ovviamente un cambio di paradigma che ha bisogno di un accompagnamento culturale oltre che di essere incentivato tramite una seria e puntuale campagna mirata alla sostituzione delle fonti fossili con quelle rinnovabili. Le fonti rinnovabili in quanto presenti da sempre e soprattutto difficilmente “catturabili” sono di per sé democratiche e intrinsecamente di tutti. Motivo per il quale sono state sempre osteggiate e spesso ridicolizzate perché ovviamente la perdita della fornitura di energia elettrica è una perdita non solo economica, ma anche politica di forte strategia nazionale ed internazionale. Un esempio che stiamo vivendo sono le conseguenze del conflitto russo-ucraino.

La comunità energetica raccoglie nel proprio nome varie sfide di cui abbiamo parlato prima. La direttiva RED II (2018/2001) all’art. 22 esplicita in modo chiaro che i protagonisti di tali comunità dovranno essere i clienti finali, in particolare i clienti domestici. In un altro punto invita gli Stati membri ad incentivare tale percorso soprattutto per le famiglie vulnerabili. In quanto comunità è naturale avere una base di socialità e di democrazia. Se così non fosse mancherebbe il presupposto principale nel dar vita ad un progetto del genere. Questo vuol dire che la collaborazione tra i soci è fondamentale quindi bisogna scrollarsi di dosso l’individualismo imperante nella società moderna e tornare ad una proficua interazione e fiducia tra cittadini e abitanti di uno stesso territorio. Le comunità energetiche incarnano perfettamente la transizione ecologica di cui parlavamo prima. Sono una produzione decentrata e localizzata affidata ai cittadini o comunque al consumatore finale. Contribuiscono ad una livellazione della rete elettrica mediante lo scambio di energia su territori più circoscritti quindi riducendo anche le perdite. Creano consapevolezza del fatto che non possiamo più continuare ad usare risorse nell’ottica di economia lineare, ma bisogna passare al paradigma dell’economia circolare. Ma soprattutto creano socialità, interazione e percorsi di mutuo-aiuto verso la risposta alla sempre più alta povertà energetica. Di questo però l’Italia, a differenza di altri stati nostri confinanti, ancora non ne prende coscienza. Oppure lo ha fatto e ancora non trova un accordo con chi andrebbe a perdere quote di mercato tanto da non riuscire a confezionare il decreto definitivo che dovrebbe dettare il perimetro per la loro costituzione, gestione e rapporti incentivanti. Una azione che dovrebbe partire “dal basso” e che dovrebbe avere una portata sociale/ambientale preponderante rispetto ad un possibile remunerazione marginale sta perdendo di efficacia in quanto siamo in ritardo e le bozze sembrano piuttosto complicare le future CER che agevolarle e supportarle.

La comunità energetica, a mio parere, ha bisogno di una impostazione iniziale secondo la quale seguirà due percorsi paralleli, ma con scelte di gestione ed economiche differenti: la presenza di un “driver” pubblico che può essere un Ente Locale oppure la sola presenza di cittadini o consumatori finali privati. Nel primo caso, la gestione degli impianti di produzione ed anche il ritorno dei corrispettivi, degli incentivi da condivisione e da vendita o da autoconsumo diretto serviranno per creare dei “comportamenti virtuosi” a favore di soggetti vulnerabili oppure promuoveranno la riduzione di costi sociali a beneficio di tutta la comunità. In questo caso, soprattutto ad esempio per i piccoli Comuni, sicuramente anche i costi di investimento saranno a carico pubblico mediante incentivazione con fondi PNRR oppure similari. Ovviamente in questo caso si dovrà stare attenti nel trovare delle convenzioni o bandi trasparenti e chiari a cui la comunità locale potrà partecipare soprattutto nella fase di stesura cercando di non creare fratture, ma utilizzando lo strumento del “dibattito pubblico” ad esempio proprio per avere la più ampia partecipazione del territorio.

Il secondo caso invece, che è poi quello in cui ci troviamo noi, è forse il più complesso ma anche quello che raccoglie maggiormente le richieste della direttiva europea che chiede proprio l’impegno del consumatore finale nella partecipazione e realizzazione di una cer. In questo caso la parte più difficile è capire come dividere tra i soci l’investimento, ma anche come rapportare gli incentivi tra gli stessi. Incentivi, che pur non volendo entrare nel dettaglio tecnico delle procedure, è utile capire come sono organizzati. Facciamo una premessa utile alla discussione che stiamo affrontando. Nella cer abbiamo un utente che produce e consuma che chiameremo prosumer ed uno che consuma, il consumer. Gli incentivi derivano dall’autoconsumo diretto che sarà un risparmio in bolletta (cioè energia elettrica che preleviamo dal nostro impianto da FER e quindi non dalla rete) quindi si configura come un “non costo”, ma sarà appannaggio solo del prosumer. Poi invece ci sono tre quote: incentivo sull’energia venduta, su quella condivisa e la restituzione delle componenti tariffarie che sono invece erogati dal GSE all’ente gestore della comunità. Quindi il consumer, se non si trovano modelli e metodi per incentivare la sua partecipazione alla cer, non ne trarrebbe nessun vantaggio diretto. Ed in questo caso, mancando il driver pubblico, essendoci stata una partecipazione all’investimento al di là la visione “ambientale” che spinge i soci questi ultimi vorranno avere sicuramente anche un ritorno economico. Il modello che si siamo immaginati e di questo tipo. Ogni socio parteciperà all’investimento iniziale con una quota ripartita secondo i consumi che a preventivo immagina di avere e quindi condividere. I costi quindi verranno ripartiti con dei “millesimi di consumo” e anche tutti i ricavi verranno rimodulati secondo questo schema. Le superfici utilizzate per la localizzazione degli impianti verranno remunerate dai costi annuali. Ogni anno in base ai consumi/condivisioni e valorizzazioni degli anni precedenti si darà un valore economico ad un “token” che sarà parametrizzato al kWh tra i costi e i ricavi generali. In questo modo, ogni socio mensilmente andrà a guadagnare un tesoretto di token che potrà spendere “virtualmente” nelle attività del territorio dove preventivamente l’ente gestore della comunità avrà formulato delle convenzioni. Questo genererà due comportamenti virtuosi. Il primo che la scelta del valore del token potrebbe essere fatta ad esempio per trattenere una quota in modo da poter dare economia virtuale da spendere anche a soggetti svantaggiati secondo uno schema condiviso dai soci della comunità. L’altra cosa è che scegliendo attività locali si potranno generare scambi economici virtuosi nel territorio di appartenenza.

Il sistema che abbiamo immaginato è complesso e sicuramente ha delle falle che solo l’esperienza potrà correggere e avvicinare alla soluzione ottimale. La direttiva europea del 2018 porta l’Italia come al solito ad essere il fanalino di coda europeo visto che a maggio 2023 mancano ancora i decreti attuativi e si ragiona come al solito per “regimi provvisori”. Non sappiamo, e forse non lo sapremo mai, se questa precarietà ed incertezza nello sviluppo ed incentivo delle cer è voluta oppure se è solo frutto della pletora di enti che dovranno normare, organizzare e regolamentare tale opportunità però noi, come diceva ai suoi commensali Cristoforo Colombo a proposito dell’uovo che stava in piedi da solo: “La differenza, signori miei, è che voi avreste potuto farlo, io invece l’ho fatto!”, vorremmo poter dire, a proposito della comunità energetica di Termoli, che a fronte di tutte le difficoltà noi ce l’abbiamo fatta. La speranza è anche che la politica italiana cominci a credere maggiormente nelle fonti rinnovabili e invece di seguire in ritardo le scelte europee sia promotrice di azioni mirate contro il cambiamento climatico. Mi piace ricordare che il nostro paese fu il primo a dotarsi di una legge sull’uso razionale dell’energia: la n. 10 del 1991. Purtroppo rimase per molto tempo disattesa senza una reale attuazione. La speranza è che le cer non subiscano la “longa manus” dei grandi gruppi che, stravolgendo l’idea con cui sono nate, vadano ad intercettare il loro sviluppo distorcendone le modalità e creando incertezza futura.

Una problematica che sarà di difficile soluzione è la presenza negli edifici pubblici di contratti EPC con ESCO. Per la semplicità di gestione e per risolvere problematiche legate alla gestione degli impianti, molti enti locali hanno affidato ad ESCO la gestione degli impianti e quindi di fatto sono passate sotto la gestione di tali aziende. I POD, sia in produzione sia in prelievo, sono di loro pertinenza e quindi bisogna fare i conti con loro. Il nostro progetto, che parte da una scuola di secondo grado, ha dovuto escludere quest’ultima in quanto la provincia ha utilizzato l’affidamento ad ESCO. Non è un problema marginale in quanto le scuoleproprio per il bilanciamento dei consumi e delle produzioni, potrebbero essere degli interlocutori eccezionali avendo un consumo ben localizzato temporalmente: mesi invernali e quasi sempre la mattina escludendo le festività e spesso il week-end. Questo va a compensare invece ad esempio il maggior consumo che utenti domestici hanno in estate oppure proprio nel week-end o festività dove magari la casa viene frequentata maggiormente.

Nell’aprile 2022, quando siamo partiti con il progetto, avevamo due obiettivi: il primo didattico/formativo ed il secondo di realizzazione della comunità energetica. Per quanto riguarda il primo pensiamo di aver contribuito alla crescita dei nostri studenti allargando lo spettro delle attività curriculari. Le collaborazioni con ENEA, con il Politecnico di Torino, il Comune di Termoli e la Provincia di Campobasso, i tanti volti con cui a vario titolo abbiamo interagito, la partecipazione ad articoli internazionali come “case study” hanno lanciato la nostra scuola verso un orizzonte molto più ampio e abbiamo contribuito nel nostro piccolo alla crescita del know-how sulle cer e soprattutto alla consapevolezza che questo mondo ha bisogno di una inversione di rotta. Un grazie a tutti i cittadini termolesi che hanno scommesso con noi partecipando alla fase di studio.

Nel 2017, con il libro: “l’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo” l’economista Kate Raworth indicò che “al di sotto del cerchio interno – la base sociale – si trovano privazioni critiche per l’umanità, come la fame e l’analfabetismo. Oltre il cerchio esterno – il tetto ecologico – si trova il degrado ambientale, per esempio i cambiamenti climatici e la perdita della biodiversità. Tra i due cerchi si trova la ciambella, lo spazio entro il quale possiamo soddisfare i bisogni di tutti rispettando i limiti del pianeta”. Noi vogliamo essere nella ciambella e vorremmo dare gli strumenti al nostro territorio per fare lo stesso.